gruppi.jpg
pionieri.jpg

IO CHE VOLEVO UNA SCUOLA COGNITIVO COMPORTAMENTALE

Quattro anni di incontri ed incastri: l’esperienza del training

È il 9 gennaio 2017, sono al pc ad ipotizzare l’ultima parte di questo elaborato. La Tv dà la notizia della morte di Zygmunt Bauman[1], e sento una frase che appunto. “La comprensione nasce dalla capacità di gestire. Ciò che non siamo in grado di gestire ci è «ignoto»; e l'«ignoto» fa paura. La paura è un altro nome che diamo al nostro essere senza difese. Nulla accade per caso, mi dico, anche stavolta. La mia storia con “le famiglie”, con la formazione in terapia familiare è stata ricca proprio di quella paura dell’ignoto, dando origine a momenti di contrasto, crisi, errori, collusione, storia.  È stato – ed è - un divenire, non scevro di momenti difficili, andati di pari passo con gli imprevisti che ho affrontato durante il training di formazione. 

Voglio fare un passo indietro, e anche due, e pure tre se è necessario, così come mi ha insegnato la mia scuola di formazione. Voglio partire dall’anno del mio tirocinio, avevo 25 anni e volevo iscrivermi ad una cognitivo-comportamentale. Le ragioni erano diverse, la prima che mi viene in mente è che in quel periodo tutti s’iscrivevano a scuole di formazione cognitivo comportamentali, era una moda rassicurante. Ed io, in quel periodo, di differenziazione ne sapevo davvero nulla per poter scegliere senza seguire la massa e qualcosa di rassicurante. All’epoca però non sapevo che mi stavo difendendo anche dalla mia storia familiare: mi serviva una cornice rigida e controllante per evitarla. Ilcaso vuole che non mi senta pronta per iscrivermi a scuola, lo attribuisco alla mancanza di autonomia economica, ma sempre il caso vuole che riesca ad avere il coraggio di affrontare il mio percorso di psicoterapia individuale: tra tante resistenze, paure ma anche voglia di sciogliere dei nodi. Avevo cercato di rimuovere quello che era accaduto l’anno prima: la tecnica cognitivo-comportamentale era stato il mezzo con cui un “professionista”, il primo a cui avevo chiesto aiuto, aveva colluso con me, non aiutandomi, ma creando nuove e profonde ferite nella mia vita. Ci ho messo un bel po' a rielaborare e dare una lettura sana di quello che mi era accaduto in quella stanza e non l’ho fatto da sola. Non ci potevo riuscire sola. Mi ha accompagnata la dott.ssa Donatella Segati, la mia terapeuta, avevo 27 anni quando inizio una terapia ad indirizzo psicodinamico.  Poco dopo mi capita un’occasione di lavoro, in un Centro per la Famiglia, a Pietramelara. Era coordinato da una psicoterapeuta cognitivo comportamentale (perché tutto torna), che, dopo sei mesi di prova, mi vuole al suo fianco, probabilmente per un’altra collusione. Fatto sta che con lei ho gestito quel centro per tre anni. La mia collega preferiva lavorare con setting individuali, pertanto tutto quello che era “famiglia” lo faceva fluire nella mia stanza, all’epoca i miei pazienti mi sembravano “scarti” delle sue scelte, lei li chiamava “casatielli”, con questo termine dialettale intendeva tutte le situazioni che reputava pesanti, difficili da digerire (o gestire), al pari di un casatiello napoletano. In realtà intendeva coppie, bambini, famiglie. Io non riuscivo a tenere nessuno fuori, non c’era una sala d’attesa, il corridoio era senza sedie, freddo e sterile, mi sembrava scortese l’attesa lì fuori, quindi…se c’era un bambino invitavo i genitori ad accomodarsi, e così è stato con una nonna, una migliore amica, un marito, e anche un amante, facevo entrare tutti. Nella mia stanza c’era un divano rosso, ad angolo, enorme, difficile non utilizzarlo tanto era accogliente. E capitava che per comodità, quando arrivavano le famiglie, io mi accomodavo lì con loro.  Solo dopo anni - con la mia scuola di formazione -  ho capito che non facevo nulla di nuovo, ma avevo solo cominciato il mio percorso di formazione, ancor prima di sceglierlo. Su quel divano rosso ho scoperto anche la “bellezza” della co-terapia: se la mia collega era costretta a seguire una famiglia preferiva farlo con me, ci integravamo bene: lei controllata, misurata, efficace, sintetica, io più spaventata e per questo a volte anche sfacciata nelle provocazioni, mi difendevo così. Non avendo idea del da farsi e mi limitavo, con una curiosità semplice ed autentica, a fare domande, a raccogliere informazioni, per ricostruire la storia delle famiglie che vedevo. Tengo particolarmente a questi anni, così come tengo alla collega che in me ha voluto vedere capacità che non sentiva sue, da lì ho cominciato a smuovere la possibilità di un nuovo percorso per me. 

Quel centro chiuse per mancanza di fondi, poco dopo mi sposai con un uomo che conoscevo da un anno, la cui relazione si era intrisa di significati profondi e collusivi, che all’epoca non ho riconosciuto.

Lasciai la mia terapia individuale, definendo quel momento una “pausa” per dedicarmi al matrimonio, ma si sa che non è così. 

Avevo 30 anni.  

Ad un anno dal matrimonio, la stessa collega che aveva condiviso con me l’esperienza nel centro per la famiglia di Pietramelara, mi invitò alla presentazione di un libro, “Affetti Speciali”, del dottor Alberto Vito. Non riuscii a dirle di no, non volevo che ci rimanesse male, non ci vedevamo da molto e io conservavo un “debito di gratitudine” che per un lungo periodo della mia vita espiato con i “si”. Superai la pigrizia di quel giorno e la raggiunsi alla Feltrinelli di Caserta. La presentazione era già cominciata. Ricordo che il dottor Vito parlò poco, qualcuno leggeva dei passi del suo libro e lui integrava con delle riflessioni misurate, facevo fatica a sentirlo, parlava a voce bassa, ricordo però che lo trovai estremamente tranquillo e posato, misurato, apparentemente sereno, mi sembrava “uno aveva trovato la pace”. Credo di aver acquistato quel libro con la speranza di trovarci dentro “qualche consiglio” per avere la stessa pace che vedevo in lui e che desideravo per me. Scrivendone, mi chiedo se non è stata una collusione anche quella. Ho divorato quel libro, la stessa notte. E l’ho anche riletto, dopo. Ma non solo: ho cominciato ad avere una gran voglia di essere, non solo più leggera, ma anche una Terapeuta. Ma per me era finita lì, ero troppo pigra in quel periodo per attivare altri movimenti, per scegliere qualcosa per me, il matrimonio per me si era rivelato una richiesta impegnativa di accudimento e mi stava succhiando energie. Ma la vita è bizzarra e ti traccia percorsi inediti senza che tu lo sappia: non è la prima volta che è un libro ad indicarmi una strada possibile da percorrere. Scrissi una recensione per Affetti

Speciali, su un Anobii[2],. Non sapevo che lì sopra c’era anche l’autore del libro, il dottor Vito, che mi ringraziò, chiedendomi che formazione avessi. “Nessuna”. Non avevo una formazione, l’unica novità era che il Centro per Le Famiglie di Pietramelara, aveva avvicinato, all’antico bisogno di iscrivermi ad una scuola cognitivo-comportamentale, la possibilità di una formazione sistemico-relazionale, creandomi altalene e dubbi.

Fu Alberto Vito a parlarmi della “Srpf” (Scuola Romana di Psicoterapia Familiare), sigla che non mi era mai passata sotto al naso. Fu lui a prendermi l’appuntamento per i colloqui di selezione, pigra come ero potevo anche lasciarmi sfuggire l’entusiasmo post-libro e mollare la possibilità del colloquio conoscitivo. Poco dopo conobbi la Dott.ssa Scalise con cui ho sostenuto il colloquio di selezione, un momento che ricordo ricco di emozioni.

Scelsi sulla base di quelle. Mi sono affidata al sistemico, al simbolico, all’esperienziale. Mettendo da parte, almeno in quel momento, la mia voglia di una cornice di riferimento più rigida, controllante e controllabile. A 31 anni ho cominciato il mio percorso di formazione presso la Scuola Romana di Psicoterapia

Familiare. Ma la mia “storia” con le famiglie non aveva ancora trovato pace.  Sono stati quattro anni davvero determinanti, fuori e dentro la scuola. 

Ho cominciato il mio primo anno “mimetizzata” nel gruppo. Non facevo altro che parlare di quanto fosse bello mio marito, di quanto fossi felice con mio marito, facevo vedere foto sue, della casa, invitavo il mio gruppo a casa, esibivo la mia vita.

Ero fusa in un “noi”, sia a casa che nel gruppo. “Io”, ero in spazi molto ridotti.

Temevo i professori, soprattutto Vallario, la cui imprevedibilità mi spiazzava, non potevo controllarla. La domenica spesso non andavo a scuola, non mi piaceva “lasciare mio marito solo a casa”. Della formazione vera e propria di quell’anno ricordo ben poco e so anche perché: mi ero creata poco spazio. All’inizio del Secondo Anno di Formazione, senza nessun preavviso, mio marito mi lascia. La sera di San Valentino, avevo detto un “no” ad un risotto con il taleggio che lui voleva per cena, credo che quello fosse il primo no secco e deciso che sentiva nella nostra relazione, ha detto di non amarmi più, quel giorno, in una manciata di minuti, senza preavviso, buttandomi fuori dalla sua vita, da quel “noi” che per me era tutto, senza darmi nessuna possibilità di accesso. Era un bel guaio per me spiegarlo a tutte quelle persone a cui, sia io che lui, avevamo raccontato, di essere bellissimi ed innamoratissimi. La prima cosa che faccio è scrivere al Dott.re Vito e alla Dott.ssa Scalise, per motivare la mia assenza, al training di febbraio, che si sarebbe svolto a distanza di una settimana dal mio scatafascio. Ma scrivo anche per altro: in quel momento volevo mollare tutto. Scuola compresa. Credo non sia stato un caso scrivere proprio ai due prof a cui devo la mia entrata a scuola, speravo mi riportassero Dentro. Mi rispondono, mi sono vicini, mi trasmettono calore. Sarà Vallario, però, in modo incisivo e decisivo a riportarmi a scuola. Il 21 febbraio, il venerdì del suo training, chiedo ad una mia collega di scusarsi con lui per la mia assenza, spiegandogli per sommi capi cosa stava succedendo.  Lui chiede di vedermi. Avevo passato una notte insonne, ero angosciata e vidi quell’invito una forma di aiuto. Mi feci accompagnare da mio padre, a cui non avevo mai chiesto nulla, ma non riuscivo né a guidare né a prendere i mezzi. Per la prima volta entrai a scuola senza trucco, sfatta, priva di armature. In lacrime. E quanto me ne vergognavo! Il 21 febbraio 2014 ho avuto la mia prima vera e grande lezione sul “confine”, l’ho capito solo al quarto anno però, all’epoca mi suonò come una forchetta strofinata su un piatto. Vallario mi incontrò nella stanza in cui si tengono le terapie, “cosa succede?”, mi chiese. Gli stavo per vomitare tutto addosso, ogni segreto della mia coppia, ogni dolore, ogni frattura, ogni paura. Vallario mi fermò, con tenerezza, mi disse che c’era una famiglia, “Entra in co-terapia con me”. Mi sembrò una proposta bizzarra, anche perché, pensai, ero in condizioni pietose per affrontare dei pazienti e la mia prima esperienza di co-terapia a scuola Ci rimasi male, “io avevo bisogno di parlare”, “avevo bisogno di qualcuno”. E lui mi aveva fermata, zittita, e offerto qualcosa che io non potevo reggere in quel momento. Ma io avevo ancora un brutto rapporto con i No, dopo il risotto al taleggio, poi, ancor di più. Accettai per non fare brutta figura. Sono entrata così in co-terapia, vestita di nero, con il mio lutto dentro, occhi gonfi, senza trucco, fragile come non mai, quasi anestetizzata. La famiglia Prasiolite, con i suoi due fratellini iperattivi, mi accolse facendo poco caso al mio aspetto. Il più piccolo dei due, Angelo, fu molto gentile con me, smise di essere iperattivo per un po’, lo portai sul pavimento per attirarlo in qualche gioco, trascorse l’intera ora a chiedermi abbracci e baci, facendomi sentire calore. Ci concedemmo un’ora di pausa dai nostri sintomi, dal dolore, io ed il piccolo Angelo.

Oggi mi è molto chiaro cosa stava accadendo in quella stanza con Vallario, ancora una volta volevo colludere, ma Vallario mise un confine, lui era il mio prof, non il mio terapeuta, non il depositario dei miei segreti, né l’uomo che mi doveva raccogliere in quel momento di bisogno. Non mi permise di colludere. Fece anche altro: mi mise a sbobinare le sedute. Tra un pianto e l’altro, avvocati, colpi di scena, tra traslochi, notti insonni, insegnanti di yoga che diventano parte dei miei incubi, io avevo quel compito da portare avanti: la mia identità professionale da costruire.  Riprendo in quel momento di disperazione la mia terapia personale, ci ritorno incazzata e angosciata. La prima cosa che chiesi alla mia terapeuta era perché mi aveva permesso di sposarmi. Ci ho messo un bel po' a comprendere che lei non poteva fermarmi in quel momento. Che un terapeuta non ha il potere di evitare certi schianti. E che – a volte – certi schianti sono anche necessari, quanto certe collusioni. 

Il secondo anno si iscrive alla S.r.p.f. anche la mia migliore amica, Luisa: entrata provvidenziale, familiare, sostegno, aiuto, conforto, ma anche espressione della lucidità che spesso mi mancava in quel momento: mi piaceva averla accanto e ne avevo bisogno. Non ho perso un giorno di training, nonostante il maremoto che avevo dentro e fuori da affrontare, mi era necessario uno spazio mio, mentre intorno a me tutto franava, vedevo la scuola una delle poche cose che mi appartenevano davvero e che avevo il dovere di portare avanti. E oggi ho la certezza che la mia separazione in un altro spazio, in un altro tempo non sarebbe stata la stessa, grazie alla “mia scuola” è diventata uno spazio fertile in cui ho attivato cambiamenti determinanti. Non mi sarei separata allo stesso modo senza i prof, senza il mio gruppo e senza Marianna, tutti hanno avuto una parola, una spinta, un’azione per me, ho registrato tutto nella mia memoria emotiva. Il secondo anno l’ho trascorso così, un po' confusa, stordita, ma ancorata fortemente alla mia formazione. Ho cominciato anche a vedere i miei colleghi in modo diverso e differenziato, prima era “il mio gruppo e basta”, lentamente “sentivo” le loro diverse modalità di interazione con me e cominciavo a “distinguerli”: c’era Nico, Astra, Alberta, Carmen, Daniela, Mariantonietta, Mariangela, Giusy, Loredana. Ho cominciato a conoscerli in quel periodo. Mi tiro fuori da una relazione collusiva che avevo instaurato con Astra, durante il primo anno, ma per me questo avrà senso solo al quarto anno, in quel periodo apparivo semplicemente stanca e non riuscivo a seguire la sua vita ed i suoi bisogni. Con la dott.ssa Scalise ho cominciato a comprendere la collusione che c’era stata nella mia coppia, sono attentissima alle sue lezioni, piene di psicodinamica, così metto insieme riflessioni e pezzi della mia vita agganciati a quella del mio ex. Scoprivo verità interne e profonde durante quei training e le riportavo nel mio percorso terapeutico, ero una spugna, cercavo di salvarmi attraverso la mia storia. Piangevo anche molto, senza pudore, davanti il mio gruppo. Io che ero abituata a controllare e coprire, mi sentivo “senza pelle”, ma ho trovato uno spazio di accoglienza rispettoso da parte di tutti. Mi dà la tenerezza, la Scalise.

Vallario quell’anno mi tiene ancorata alle cose da fare. Non mi lascia piangere in classe, ma quando mi alzo per andare al bagno in cui ho trascorso molto tempo del mio secondo anno, manda qualcuno a sollecitarmi. Mi dà il tempo, Vallario.  Vito mi lascia disegnare stelline. Tutti i quaderni degli appunti del secondo anno sono pieni di stelline. Scaricavo la mia ansia così. Vito mi tratta come se nulla fosse accaduto, affronta la mia angoscia con educazione, tatto, leggerezza, ironia, tanto che durante il suo training mi sentivo meno angosciata. Non mi permette di drammatizzare. Mi dà la leggerezza, Vito. 

La Cirignano, che era stata la mia prof al primo anno, durante le pause mi fornisce tantissimi consigli di lettura, comprende che amo leggere. Un giorno, tra i corridoi, mi disse “certe cose capitano solo a chi è in grado di reggerle”, mai frase mi fu più utile, ho cominciato a sentire, con gradualità, la mia capacità di starci in quella situazione, di poterci stare, non mi era capitata per caso. Mi dà la spinta, la Cirignano. 

Questo è stato il mio secondo anno di formazione: non avevo più una casa fantastica in cui ospitare il mio gruppo e mettere in bella mostra una vita che volevo far passare come perfetta, non avevo più un marito che definivo “bellissimo”, non avevo più quella storia da raccontare, ero Angela e basta. E io di Angela e basta ci capivo ben poco.

Ho cominciato il Terzo Anno, con l’intento di capirci qualcosa in più, decidendo di regalarmi per il mio compleanno, il genogramma[3]. scelgo la Dott.ssa Scalise come didatta. Nel raccogliere informazioni sulla storia dei miei genitori scopro una cosa che non avevo mai saputo e che riguarda la mia bisnonna paterna, Maria. Mio padre mi racconta che sua madre, di cui io porto il nome, è cresciuta senza genitori: quando era piccola, sua madre, la bisnonna Maria, uccide il marito. La cosa mi spaventa. Viene fuori che il mio bisnonno paterno era un donnaiolo, la bisnonna Maria scopre l’ennesimo tradimento e non ci sta, prende una bici e raggiunge il posto in cui sa di trovare suo marito con la sua amante. E così è stato, gli ha conficcato delle forbici nell’inguine ed il mio bisnonno è morto dopo tre giorni di agonia in ospedale. Mio padre raccontava questo pezzo della sua storia come se nulla fosse, per me si apriva un mondo. O forse solo una ferita storica. Fatto sta che nonna Maria, all’epoca, “beneficiò” del delitto d’onore, ma nessuno la volle più, fu allontanata da tutta la sua famiglia, figli compresi. Nonna Angela quindi fu cresciuta da una sorella maggiore, senza mamma e senza papà. Anni dopo incontrò mio nonno Francesco, uomo molto violento, che picchiava lei ed i 5 figli maschi, tra cui mio padre. Risparmiava le tre figlie femmine. Nonna Angela diventò molto bisognosa di attenzioni, da parte dei figli, si metteva sempre a letto e lì si ritrovava tutti intorno. Viene fuori una storia di rabbia, bisogni, la perdita violenta del maschile diventa attesa e dipendenza dallo stesso, attivando il femminile sull’area del bisogno. Questa parte del genogramma mi aiuta a vedere meglio mio padre, la sua patologia, le sue esplosioni di rabbia e anche la sua violenza. Non deve essere stato facile per lui crescere in un sistema dove rabbia e paura si mescolano fino a diventare annientamento, la bisnonna Maria era l’esplosione di questo incontro di emozioni.  Mio padre sposa mia madre, donna che controlla bene le emozioni, difendendosi dagli anni di sofferenza che ha arrecato il disturbo di mio padre al mio sistema familiare. Mia madre sceglie un uomo con mille bisogni patologici, la sua funzione diventa curarlo, sopportarlo, passando da momenti di estrema compassione a momenti di rifiuto, sentimenti che mi trasmetteva, e che io riportavo nella relazione con mio padre, in un’altalena di bisogno e rabbia, che ho riproposto nella scelta dei miei partener. Mio padre ha anche combattuto contro la poca differenziazione di mia madre, la “voleva tutta per sé”, dall’altro lato mia madre non riusciva a scegliere lui invece di suo padre, son venuti fuori anni di scontri molto violenti, a volte tanto pericolosi da rievocare l’azione folle di Nonna Maria.  

Ed in questi anni c’eravamo io e mio fratello Francesco a crescere, lui che ha scelto la distanza per proteggersi, geografica e non. Con il genogramma vedo la rabbia del mio trigenerazionale, il narcisismo disperato, la dipendenza affettiva e mi spiego molta della mia capacità collusiva, la mia area di bisogni non espressi. E le mie scelte, mai casuali, tanto da rispondere perfettamente ad un sistema di appartenenza. Ma la Scalise mi fa vedere anche altro: il coraggio della mia bisnonna Maria, che deve fare i conti con la sua rabbia omicida, con la devastazione, con la solitudine. E riesce a rifarsi una vita: mio padre mi racconta, infatti, che qualche anno dopo nonna Maria andò a “convivere” con un uomo, all’epoca era davvero una scelta coraggiosa. Tutti se l’aspettavano sola ed isolata, ma la mia bisnonna si prese una seconda possibilità. La Scalise mi riconosce tutto il coraggio con cui ho affrontato la furia del mio ex marito, la follia delle sue azioni, l’imprevisto ed i cambiamenti che ho apportato alla mia vita, trasformando quella che Calvino definisce “una bastonata dura”. 

Così comincio il Terzo Anno, che trascorrerò concentratissima sulla formazione, sono una spugna, prendo appunti, compro libri, sono più serena nonostante la vita fuori mi riporti ad avvocati, cose da definire e strappi da arginare. Non faccio grandi battaglie per avere cose della mia vecchia vita, eccezione fatta per una Nikon, che non so manco usare bene, ma la voglio, il significato mi è ancora poco chiaro. La ottengo, a lui lascio tutto il resto. La porterò con me nei viaggi che farò da quel momento in poi.

Questo è l’anno in cui accade anche qualcosa con le famiglie. Faccio di tutto per evitarle, per non accoglierle. Perdo una famiglia che seguivo privatamente, una famiglia ricomposta di 7 persone. Dopo una denuncia che la signora fa al suo compagno lui non può più avvicinarsi a lei, non possono più venire in terapia, diventa complicato vedere i cinque figli. “Mi lasciano”, la vivo così. Poco dopo, a scuola, arriva la famiglia Marmanite, il caso clinico descritto, faccio quello che oggi definisco un sabotaggio della terapia familiare, la perdo e questo schema si ripeterà per un anno e mezzo nel mio studio privato. Ogni volta che mi si presenterà una famiglia farò in modo che questa vada via. All’inizio era tutto molto istintivo, poi ho cominciato a sentire il “non me la sento” e le azioni si sono fatte più consapevoli. Vado in crisi, ho scelto una scuola di psicoterapia familiare e rifiuto di fare terapia familiare. Forse avrei dovuto seguire una formazione cognitivo - comportamentale, me lo chiedo al terzo anno, che genio!

Questo è anche l’anno in cui subentra il prof Marco Rossi, che sostituisce il dottor Vito, è a lui che racconto quello che sta succedendo con le famiglie ed è lui che mi invita ad affrontare la mia famiglia “interna”. 

Intanto vivo il mio gruppo con molta serenità, affronto le crisi, gli screzi, sto lontana dalle alleanze e prendo quello che va preso un po' da tutti. Cosa più importante non mi pesa più il loro giudizio, mi rendo conto e se ne rendono conto anche loro che sono più libera, viene fuori la mia ironia e anche quella leggerezza che la mia storia ed il mio trigenerazionale ha rischiato di farmi perdere, visto il dramma che portava in sé. Divento più simpatica, anche. Imparo a dire No, nel frattempo. 

Sul finire del Terzo Anno, divorzio. E sono pronta al Quarto Anno, l’anno della separazione dal mio gruppo. Ma non solo, quello è anche un anno particolarmente generoso con me: credo che il mondo esterno abbia “sentito” la serenità che stavo maturando e si sia mosso di conseguenza. Ho avuto il mio primo contratto che mi garantiva un’entrata fissa che ha contribuito alla mia stabilità. Divento supervisore di una Cooperativa Sociale, questo ruolo mi porta a fare molta attenzione alle alleanze, alle collusioni, a volte è faticoso, ma a volte mi riesce molto bene: ho fatto scuola sulle collusioni nelle relazioni!  Il mio datore di lavoro è il capofamiglia di un sistema invischiato, ogni giorno io mi relaziono a loro, stabilendo e definendo i confini che diventano necessari per la gestione del mio lavoro. Ma succede anche altro. Aumentano i pazienti. Tanto che lascio la stanza di cui usufruivo due pomeriggi a settimana e prendo uno studio tutto mio. 

Compro i mobili, tranne il divano. 

Comincio a raccontarmi che per affrontare le famiglie ho bisogno di un divano che non ho e mi do mille scuse per tardarne l’acquisto. Intanto lo immagino: lo voglio blu con i cuscini arancio, ma non lo compro. 

Durante il quarto anno comincio ad accendere i riflettori sulla mia rabbia, spesso me la sottolineava Rossi, mi infastidiva quando lo faceva, non me la riconoscevo.  La riconduco, poi, al mio genogramma, alla mia Bisnonna Maria, deve essere stata accecata dalla rabbia, quando ha sentito di essere stata tradita e annullata per l’ennesima volta dal marito. Lei però ha perso il controllo, quella donna la sua rabbia non se l’è riconosciuta, l’ha trasformata in altro. Comincio allora ad accoglierla io, comincio ad ipotizzare che l’abbia passata a mia nonna Angela, che si deve essere sentita arrabbiata con una madre che le ha tolto un padre e che non ha potuto crescerla. La rabbia di nonna Angela è diventata silenzio, vittimismo ed ipocondria. Credo che mia nonna l’abbia passata a mio padre, che l’ha trasformata in un sintomo. Ed eccomi, io, che dovevo accogliere la rabbia del mio trigenerazionale, cercando di capire dove si fosse infilata ma mi sentivo già più leggera. 

A settembre del mio Quarto Anno di Specializzazione, ricevo la chiamata di una paziente che vuole un appuntamento. All’incontro si presenta inaspettatamente con sua figlia, durante il primo colloquio comunico che mi occupo di terapia familiare, senza proporla alle due donne, agganciandomi – serena – all’affermazione della ragazza “mio padre non verrebbe mai”. Al secondo colloquio, senza preavviso, si presentano in quattro. Madre, padre, figlio e figlia. 

Sono senza divano, è il mio primo pensiero, devo digerire l’imprevisto. Sistemo le sedie in cerchio e mi metto tra loro. E con loro ci metto anche la mia famiglia interna. Stando attenta alle alleanze, alle collusioni, ai rimandi. Avevo fatto scuola.

Da quel momento bussano alla mia porta altre famiglie. 

Le accolgo. 

Compro il divano blu e ci metto sopra due cuscini arancio. 

4.2       Difetti speciali

“Parlando con voi, Dottò, ho capito anche un’altra cosa. Siete stato proprio voi, non è vero, a fare scrivere quella parola, così grande all’ingresso dell’ospedale? Avete fatto benissimo” (….). Finita la giornata di lavoro, sono uscito con l’auto per tornare a casa e mi sono fermato davanti l’ospedale, curioso di vedere cosa ci fosse scritto all’ingresso. Non ci avevo mai fatto caso, lo confesso, sebbene ci passi davanti tutti i giorni da un bel po' di tempo. Sapete cosa si legge, a caratteri cubitali sopra l’uscio della porta principale? ACCETTAZIONE.”  È la pagina 20 del libro

Affetti Speciali, che vede una piega sull’orlo, un segno di quattro anni fa, un modo per non dimenticare. Credo che la conclusione della mia tesi e del mio percorso di formazione con la Scuola Romana, abbia proprio avuto il senso profondo dell’accettazione, la stessa che, inconsapevolmente, andavo cercando quattro anni fa. Ho accettato molte parti di me, della mia storia, che prima non vedevo. Ho accettato la mia rabbia, la mia solitudine, i bisogni, ho accettato quanto tutto questo s’infilasse nelle mie relazioni, condizionandole. Anche le relazioni terapeutiche. Ne sono uscita una persona nuova, non migliore, non peggiore, semplicemente diversa, che ha tutte le intenzioni di mutare ancora, conservando e preservando ciò che va tenuto, di accettare, di lasciare andare, di essere altro ancora. La mia storia di formazione e personale vanno a braccetto, lo avete letto. Ci sono stati incastri collusivi, patologici, a volte incastri perfetti che mi hanno permesso di crescere attraverso gli incontri. Gli errori, le aree di bisogno, le paure, le cose andate storte sembrano i difetti della mia storia, in realtà è tutto ciò che mi rende una persona in continuo divenire. Ricordo l’ultima parte del libro “Considerazioni Notturne di un Terapeuta della Famiglia”, che mi fu assegnato dal dottor Vito per un lavoro di gruppo durante il secondo anno di formazione: C. Whitaker, scrive della crescita del terapeuta e del passaggio che si compie dal sapere qualcosa sulla terapia, al fare terapia, fino ad arrivare ad essere terapeuta: lo strumento reale che garantisce il cambiamento è il terapeuta, in quanto il suo cambiamento garantisce il cambiamento del paziente stesso. Il passaggio dall’essere terapeuti in formazione all’esser terapeuti professionisti è un processo difficile, ma anche meraviglioso a mio avviso, che parte proprio dall’accettazione di certi difetti.

Sono difetti speciali, appunto. 

A volte è necessario raccontarseli.  

E raccontarli

 

Pin It