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GIOCANDO IN TERAPIA: LE MASCHERE E I REGALI DI M.

FB IMG 1593672744019In “Tempo e mito nella psicoterapia Familiare” Andolfi scrive della difficoltà che può

incontrare un terapeuta nell’introdurre il gioco all’interno della terapia, una difficoltà

attribuita alla probabile fatica di riportare la comprensione di situazioni emotive su un piano

di rappresentazione in seduta: per comprendere è necessaria una complessa azione mentale

di astrazione del dato riferito verbalmente, mentre “nella rappresentazione ludica di questo

è implicito un elemento di finzione che permette di “drammatizzare” in parole e azioni

desideri, paure ed esperienze dolorose.

Pertanto la cornice del gioco indica “che le regole

valide per il comportamento ludico sono diverse da quelle valide per ciò che non è ludico”

(Bateson, 1972). Per questo per il terapeuta si rende necessario un cambiamento di posizione,

invece che “astenersi” per tentare di comprendere occorre implicarsi nella “costruzione

emotiva dello scenario terapeutico” e muoversi continuamente spostandosi dal livello

simbolico a quello reale. Anche ricoprire ruoli diversi su piani diversi (ora quello del

bambino, ora quello del saggio) crea un dinamismo che può essere colto dai membri della

famiglia come indicazione a non rimanere incasellati sempre nelle stesse funzioni.

Il gioco, come afferma Andolfi, è una modalità attraverso la quale il terapeuta può più

facilmente essere accettato dalla famiglia, poiché svolge un ruolo di mediazione e traduzione

di segnali che hanno un codice completamente diverso, quello degli adulti prevalentemente

verbale e caratterizzato da concetti astratti e quello dei bambini, connotato da vibranti

espressioni verbali e immagini.

Pensando alla mia esperienza in terapia con la famiglia Borbona, la cosa per me più difficile

è stata quella di entrare in relazione con M, innanzitutto dare rilievo alle sue espressioni, ai

suoi movimenti e ai suoi disegni e poi rivolgermi a lui ragazzino in un modo che non mi

facesse sentire così distante come io mi percepivo, non adeguata. La mia difficoltà in qualche

modo era mascherata, non consciamente, da un certo fastidio, che provavo in sua presenza;

un po’ come M, credo di aver fatto del “fumo” per non sentire ed affrontare questa difficoltà,

finché il mio supervisore non mi ha dato l’opportunità di vederla. È avvenuto in modo

graduale inizialmente, quando mi ha fatto notare in un post-seduta che non avevo dato

importanza ad un disegno fatto da M. Lì mi sono resa conto che mi mantenevo sempre a

distanza da M per non dover fare i conti con la mia incapacità di andare su un livello

simbolico e provare a fare una lettura coerente dei suoi messaggi. L’idea di fondo che mi

governava era che non mi sentivo competente e le mie lacune teoriche e pratiche su come

“dovrebbe funzionare” un ragazzino erano un amo a cui io mi agganciavo per non vedere e

sentire altro di me e di quello che accadeva nella relazione terapeutica. Quanto un’idea può

incastrare! L’ho capito solo quando il mio supervisore, con un grande dono, mi ha lasciato

fare un’esperienza da sola in seduta.

Per me fatidica è stata ad oggi la penultima seduta, nella quale erano presenti la signora con

i due figli, mentre il papà era al lavoro. L’idea con la quale ero entrata era quella che mi

portava a vedere la mamma in mezzo ai due “carabinieri” e, mentre ero intenta a rimandare

alla signora quanto i figli fossero bravi ad incastrarla in quel ruolo, M prendeva delle

maschere bianche che si trovavano sulla scrivania.

Conoscevo già quelle maschere; il professor Saccu me le aveva mostrate tempo prima, in un

precedente post-seduta, dicendomi che erano appunto delle maschere neutre, molto usate nel

teatro e che avevano la caratteristica di assumere l’espressione dello stato d’animo di chi le

indossava. Pensare di usarle era una novità e appena M le ha prese mi sono sentita scomoda,

presa dalla paura di non sapere come fare. Mi sentivo in difficoltà e ho iniziato a spiegare

che le maschere che aveva preso M erano delle maschere neutre che rivelavano l’emozione

di chi le indossava.

Con una delle due maschere indossata M ha messo in scena una rappresentazione della

mamma che si arrabbia con Mart e, parlandone dopo la seduta con il supervisore, ho colto

quanto fosse in linea con l’immagine che avevo rimandato alla mamma, quella di

“generalessa” che risponde a tutte le chiamate dei figli. Lui lo aveva rappresentato

concretamente.

Do una maschera a Mart e inizialmente sto a guardare con l’intento di essere presente e non

farmi trasportare dai pensieri che mi passano per la testa, pensieri che mi dicono che non so

cosa fare e che bloccano qualunque mia espressione e movimento. M fa il suo show, inizia

a fare la trottola, balla, si muove sulla sedia, rischiando anche di far cadere la telecamera...

Mamma: Lui trasmette come se cercasse sicurezza da qualche parte.

Terapeuta: Quindi possiamo dire che lui fa tutto questo macello perché si aspetta che

qualcuno gli dia dei confini.

Mamma: In cui rimanere.

Terapeuta: Ok. E come si può fare? Se lo ricorda come insegnargli il tempo?

Mamma: Si.

La mamma si alza, stringe il figlio a sé e conta per sessanta secondi. Quando ritornano seduti,

dico a Mart di mettersi di fronte alla madre, mi alzo e mi posiziono vicino a loro e chiedo

alla signora cosa vede guardando la figlia con indosso la maschera. La madre dice: “una gran

paravento”; colgo quest’espressione per dire che quindi Mart è una che è brava a nascondere.

Intanto M è seduto accanto alla sorella, ascolta e mi dà nuovi spunti.

M: Mart di nascosto mangia la nutella.

Madre: Si, perché Mart è molto golosa.

Terapeuta: Quindi Mart fa come la mamma.

Madre: In che senso?

Terapeuta: Mette tutto dentro e non si dà la possibilità di esprimere fuori quello che prova.

Mart ha iniziato a parlare di sé, delle sue amicizie, raccontando un episodio con un’amica,

per il quale aveva sofferto e su questo tema c’è stato anche un momento di confronto sereno

con la madre. Entrambe avevano la maschera e parlavano del loro modo di vivere il

coinvolgimento in amicizia.

Ad un certo punto è entrato il professor Saccu, porgendo una terza maschera a M.

Madre: Con questa maschera gli è cambiata espressione rispetto a quella di prima, sembra

un po' malinconico. Sembra un po' triste.

Terapeuta: Quindi anche M nasconde la malinconia facendo tante cose.

Madre: Si, probabile. Magari è il suo modo di distrarsi dalle cose negative.

Terapeuta: Distrae se stesso e distrae anche gli altri mandando l’attenzione completamente

da un’altra parte. Lui è capace di far credere che non sa stare nel tempo, che non sa le cose.

Madre: Si, perché M quando ha un problema, una difficoltà a scuola, non dice quello che

succede e poi ha esplosioni.

Terapeuta: Quindi Mart tiene dentro e anche M tiene dentro e sfoga con l’agitazione.

Sembra che in questa famiglia non ci si può permettere di esprimere e chi se le prende tutte

queste emozioni?

Madre: Papà che scrive canzoni.

Terapeuta: E quindi papà finisce sulle nuvole.

Nel finale della seduta ho rimandato alla famiglia il fatto che se ognuno si riprende la

possibilità di esprimere la sua parte di emozioni, il papà non finisce sulle nuvole e nemmeno

M si trova a fare la “trottola” per tutti, ma ognuno può bilanciare la sua parte più terrena e

pratica con quella più aerea e creativa.

Ho vissuto questa seduta in modo intenso, ci sono stati alcuni momenti in cui mi sentivo

“friggere” ma rivedendomi ho notato di aver contenuto queste emozioni cercando di

utilizzarle. L’utilizzo delle maschere mi ha esposto a confrontarmi con il tema del gioco, del

simbolismo e più di tutto con quel ragazzino per me inizialmente un estraneo fastidioso,

quindi con le mie emozioni.

Whitaker parla di crescita del terapeuta nella terapia con la famiglia (1989) ed io, attraverso

la relazione con M ho potuto accedere a qualcosa che non pensavo di poter avere dentro ed

utilizzare e lasciarmi permeare da quell’incontro.

M mi ha permesso di avere fiducia nell’incontro con l’altro e in quello che di nuovo può

emergere dentro di me, un nuovo che all’inizio può spaventarmi ma che può diventare una

piacevole sorpresa. Quando ho iniziato la Scuola Romana pensavo di non essere adatta a

lavorare con i bambini in seduta, perché il mio linguaggio era troppo adulto e distante dal

mondo dei “piccoli” ma è come io fossi stata presa per mano e portata a scoprire che se solo

dentro di me ci fosse stata la voglia di abbattere il muro delle mie idee avrei visto altro.

M mi ha regalato la fiducia nel presente, nel momento che vivo come generatore di

movimento, a me che sto più spesso concentrata sul passato e sull’acchiappare dei rifermenti

che mi diano il senso per poter procedere in avanti. Ho vissuto l’hic et nunc. Il mio cielo è il

passato.

Un altro regalo che mi ha fatto M è stato quello di poter considerare di avvicinarmi ad un

ragazzino ed interagire con lui anche attraverso il tatto e allo stesso tempo quando ciò è

accaduto, quando ho avuto un tocco stabile sulla sua spalla ho potuto constatare quanto la

mia calma era anche sua. M mi ha anche regalato la possibilità di pensarmi in una modalità

giocosa in terapia, e non stare solo su un piano razionale e serioso.

Mi sono interrogata sul perché i maschietti mi facessero un effetto così espulsivo e non ho

potuto non pensare al mio rapporto con mio fratello, che io ho sempre vissuto come

prepotente e ingombrante e dal quale ho avuto necessità di separarmi dopo aver vissuto

insieme durante gli anni universitari. Ho portato avanti il mio proposito e mi accorgo di

quanto in questi anni il rapporto con mio fratello sia cambiato. Lui oggi vive nella città dove

siamo nati e cresciuti, in Calabria ed io a Roma. Nella distanza abbiamo un rapporto più

sereno, leggero e ho riscoperto anche tutta la simpatia di un fratello da cui mi sono sentita

molto stuzzicata, ma ad oggi gli attribuisco un ruolo provocatore perché ha stimolato in me

la grinta che non tiro fuori spontaneamente. Quando ci siamo separati io mi sono definita

non più rispetto a lui e con difficoltà ho preso atto che non era lui il motivo che mi tratteneva,

mi sono confrontata con il fatto che non era lui l’elemento frenante e ho riportato su di me

la responsabilità. Ho capito dove finiva lui e dove iniziavo io. Questo è un po' quello che è

successo quando il professor Saccu non è entrato nella stanza di terapia insieme a me,

permettendomi di ritrovarmi ad avere a che fare con quello che sono io come terapeuta in

formazione.

Sento che nell’esperienza in questa terapia stia avvenendo un passo ulteriore dentro di me,

il recupero del senso di responsabilità non solo nell’ottica di onere, di peso da portare ma

come onore di me e della mia unicità che può avvenire solo nell’accettazione delle mie parti

più scomode che vengono a bussarmi nell’incontro con l’altro.

In particolare, ho trovato lo spunto per questa riflessione nelle parole del Professor Paolo

Bucci - uno dei tre didatti del training di formazione - in un suo seminario tenutosi alla

Scuola Romana, dal titolo “Vivere con gli altri, vivere in quanto altri”. Il professor Bucci

scrive: “Lo stereotipo che per primo si impone è quello di considerare il tema Me-Altro come

caratterizzante elementi antagonisti, qualche volta armonici, ma spesso conflittuali. Se

consideriamo come “l’altro” è frequentemente associato a chi è estraneo, diverso da me, si

configura una cornice di significato che può lasciare ampio spazio a posizioni ideologiche e

moraliste che alimentano il divario tra due istanze necessariamente in conflitto e scarsamente

armonizzabili. Può sembrare l’uovo di Colombo, ma il concetto di Altro è inscindibile da

quello di Me: ha un valore assolutamente relazionale ed è in continua trasformazione per la

costruzione di una identità dei valori, delle situazioni personali, storiche e sociali.”

Non era la prima volta che il professore avesse introdotto questo concetto nelle sue lezioni

ma è stata la volta in cui quelle parole hanno risuonato dentro di me più che mai perché il

mio tema sentivo fosse questo, nella terapia con la famiglia, ma non solo. Mi accingevo a

scrivere la tesi e l’altro con cui dovevo fare i conti era proprio dentro di me; poter ricollocare

all’interno e iniziare un dialogo con le parti più fastidiose, quelle che mi sollecitavano

maggiormente mi ha consentito di poter snocciolare una matassa di emozioni e vissuti che

volevo esprimere ma delle quali avevo paura di non riuscire a restituire la complessità.

Non è stato facile, toccare questo tema ha implicato che m’interrogassi sulla volontà di fare

la professione di psicoterapeuta che, per quello che ho compreso, è un continuo ritorno su di

sé e questo è impegnativo, implica l’umiltà di mettersi in discussione ogni volta, di prendere

in considerazione le proprie risonanze, di darsi un peso nella relazione, implica fiducia,

conoscersi ogni volta in modo diverso e abbandonare le rassicuranti ma illusorie certezze,

sbagliare e sbagliare ancora, poterlo vedere ed andare avanti, significa anche poter chiedere

aiuto. Ma tutto questo non è che in fondo vivere e non mi sembra poco!

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