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L’approccio sistemico-relazionale simbolico-esperienziale….secondo me

IMG 20200706 WA0005Il vasaio vecchio offre al vasaio giovane il suo pezzo migliore.

Il vasaio giovane non conserva quel vaso perfetto per

contemplarlo e ammirarlo ma lo butta per terra,

lo rompe in mille pezzi, raccoglie i pezzetti e li incorpora alla sua argilla.

(E. Galeano, 1940)

Quali modelli

Nell’organizzare la stesura di questo lavoro ho avuto necessità di soffermarmi sulla riflessione di cosa per me significa far riferimento ad un modello (o a più modelli) e soprattutto su qual è il modello secondo me quando penso alla pratica psicoterapeutica in riferimento all’approccio sistemico; mentre scrivo tali osservazioni mi accorgo che nel farlo mi sto includendo nella scelta delle riflessioni da fare in questa sede. E questo è già un modello. Ed è un modello (anche) sistemico-relazionale. Lo è nella misura in cui ricalca le orme di uno sviluppo teorico che, a partire da un’epistemologia della rappresentazione nella cosiddetta “prima cibernetica”, ha potuto muoversi fino ad arrivare ad un’epistemologia della costruzione nella cosiddetta “seconda cibernetica”, includendo l’osservatore (io, in questo caso) che non guarda con distacco il proprio oggetto di lavoro rappresentandolo in modo oggettivato come qualcosa di altro da sé, ma che inevitabilmente ne fa parte contribuendo a costruirlo, anzi a co-costruirlo. È qui che entra in gioco un ulteriore passaggio verso quella che è stata definita la “terza cibernetica”, mediante il concetto di responsabilità, con particolare attenzione alla responsabilità del terapeuta che sceglie di costruire la sua ipotesi d’intervento e agisce coerentemente con quella ipotesi. Il posizionamento del terapeuta è di tipo “etico”, nel senso di un’assunzione di responsabilità verso le proprie scelte d’azione. Così, se le conoscenze teoriche e pratiche nutrono il sapere e il saper fare del terapeuta, è il saper essere, fondato sull’esperienza, sulla propria storia, sui propri valori, ecc. (il “non detto” del terapeuta, secondo Boscolo e Bertrando, 1996), che consente una interconnessione tra teorie, ipotesi e la persona stessa del terapeuta, dotandolo di quella elasticità necessaria per muoversi all’interno di una mappa che non corrisponde al territorio ma che contribuisce a costruirlo nell’interazione con l’altro, assumendo sempre consapevolezza – e quindi responsabilità - di qual è la mappa scelta tra le innumerevoli mappe possibili per orientarsi in quei territori.

La prospettiva post-moderna (Boscolo e Bertrando, 1996) orienta lo sguardo dalle famiglie al terapeuta modificando necessariamente l’epistemologia dell’agire terapeutico, come puntualmente osservano Boscolo e Bertrando (2002, 159): “se mi occupo della famiglia cerco la tecnica giusta per avere un effetto; se guardo me stesso necessariamente mi chiedo che senso possa avere per me usare quella tecnica”. Se per Whitaker (1990) il concetto guida è l’essere terapeuti in antitesi al fare terapia, la domanda che mi pongo in qualità di allieva è come trovare un modo mio di accostarmi ai modelli, che sia la sintesi emergenziale delle mie caratteristiche personali, della mia storia, delle mie esperienze, dei contesti, delle prassi, ma anche delle conoscenze e rielaborazioni dei pionieri, dei maestri storici e dei maestri attuali. Un modello fondato su ciò che Luhmann (1990) chiamava “interpenetrazione” tra livelli sistemici tale per cui ciascuno dei livelli retroagisce sull’altro dotandolo di “sufficiente disordine”, immettendo nell’altro la propria “complessità interna precostituita”, ma contribuendo anche a formarne la struttura dei confini. Un interessante isomorfismo: questo è esattamente ciò che avviene nel momento in cui si tenta di rintracciare una prospettiva storica nella terapia familiare. Quali sono i ”modelli” della terapia familiare? È possibile rintracciare un minimo comune denominatore nella terapia familiare? Il senso di queste domande risiede nell’impossibiltà di semplificare e risolvere la questione e nel costruire invece una complessità in grado di contenere la pluralità di modelli, le contraddizioni e il disordine che ne conseguono. Una coperta di pezze l’ha definita Minuchin (2002), che rende chiaramente l’idea di quell’intreccio, di quella complessità che coesistono nella tessitura variopinta.

1.1.1 I maestri di ieri

I tentativi di operare classificazioni nella terapia familiare hanno adottato differenti criteri per lo più tendenti a raggruppare per insiemi i pionieri. Ad esempio, Giacometti (1979) opera una classificazione utilizzando come parametro il rapporto individuo-famiglia secondo tre posizioni:

1) la posizione supra-individuale che raggruppa coloro che scelgono come unità di analisi la famiglia intesa come sistema di interazioni, mutuando le categorie concettuali dalle teorie della comunicazione e dalla cibernetica e secondo cui il terapeuta è un agente esterno teso a modificare le interazioni rigide che impediscono il cambiamento del sistema. Sono inclusi in questo gruppo tutti quegli autori che, a partire dal gruppo originario di Palo Alto, hanno costituito le premesse per quella corrente oggi definita “strategica”: Watzlavick, Weakland, Fisch, Haley, Selvini Palazzoli.

2) la posizione supra-individuale-individuale che prende in considerazione quegli approcci definiti “strutturalisti”, attenti cioè ai confini interni ed esterni del sistema familiare: Minuchin e Andolfi i principali esponenti e il terapeuta diventa una parte integrante del processo terapeutico finalizzato a modificare la struttura del sistema in modo da permettere una modifica delle posizioni di ciascun membro al suo interno, allo scopo di consentire nuovi modelli di interazione.

3) infine, la posizione individuale-supra-individuale che raggruppa gli autori che tentano una continuità con la psicoanalisi (Bowen, Borszomeny-Nagy, Whitaker) e che concettualizzano la famiglia a partire dal sé individuale e dal suo sviluppo: la stretta interdipendenza tra individuo e famiglia passa attraverso la capacità dei suoi membri di individuarsi.

Un’altra sintesi esauriente proviene da Hoffmann (1981; trad.it, 1984) che considera cinque “grandi originali” come i primi clinici che si sono cimentati nel lavoro con le famiglie producendo idee e sperimentazioni che li caratterizzano come “spiriti inimitabili”: Satir, Acherman, Whitaker, Erikson e Jackson. Nello stesso lavoro la Hoffmann descrive cinque indirizzi principali della terapia familiare:

a) indirizzo storicamente orientato, che include tutti quegli autori che tendono a mantenere un filo conduttore con la psicoanalisi: Bowen, Paul, Borszomeny-Nagy.

b) indirizzo ecologico, che, a partire dallo sviluppo della psichiatria sociale degli anni sessanta, prende in considerazione il contesto in cui avviene l’intervento. I precursori: Auerswald, Sheflen, Aponte

c) indirizzo strutturale, rappresentato da Minuchin che prende le mosse dall’attenzione al contesto degli autori ecologici .

d) indirizzo strategico che, secondo il pensiero di Haley, prevede che il terapeuta intervenga attivamente per la risoluzione del sintomo.

e) indirizzo sistemico, che la Hoffmann riconduce allo sviluppo italiano della terapia familiare con i lavori del gruppo di Milano sul controparadosso, la connotazione positiva e su una pratica “squisitamente sistemica”.

Bertrando (2005), nel numero 77 della rivista “Terapia familiare”, mette in luce l’irriducibilità dei modelli a qualsiasi classificazione generale, che non può tenere conto di come ogni dettaglio possa essere inquadrato in una differente cornice concettuale. Così si potrebbero inquadrare i pionieri a seconda dell’estensione di famiglia che prendono in considerazione: nucleare secondo Ackerman, Satir, Minuchin, Haley o trigenerazionale secondo Bowen, Framo, Nagy, Whitaker, Sellini-Palazzoli.

Lontana da me l’idea di riprodurre approfonditamente in questa sede reali classificazioni, preferisco piuttosto fare mia la definizione di Cigoli (2002, 144-145) che pensa ai pionieri come “maestri dell’incontro con l’altro”, che lasciano agli allievi “una traccia; si tratta di segni che abbisognano di essere colti, interpretati e vivificati con il cammino e il rischio personale, compreso quello di andare alla loro ricerca”. Pertanto, piuttosto che pensare a classificazioni di modelli teorici o di tecniche dei pionieri, preferisco soffermarmi su ciò che in me ha lasciato una traccia nel mio incontro con loro (con quelli di loro che ho avuto opportunità di leggere o che scelgo di inserire in questo scritto), arricchendo la mia personale moltitudine.

Di Whitaker mi rimarrà sempre impresso il suo stile terapeutico, che è ben riconoscibile nella distinzione che egli stesso fa tra l’essere terapeuti e il fare terapia: è proprio attraverso il suo esser terapeuta che riesce così bene ad assumere questa funzione di “distruttore delle forme cristallizzate” (Minuchin, cit. in Hoffman, 1981), forme che ritiene risultare dalla presenza di eredità o miti familiari che costringono le generazioni successive a ripetere i medesimi schemi, occupando le posizioni che mantengono un equilibrio nella famiglia d’origine. Per dirla con le sue stesse parole, “come mantenersi in morte: basta continuare a parlare dei buoni vecchi tempi a tutti quelli che sono disposti ad ascoltare” (cit. in Roberto, 1995). Una ferma convinzione nella necessità di ristrutturare rigidità e ristrettezza di vedute che gli ha consentito di usare i suoi interventi “bizzarri”, un suo personalissimo “senso” (Cotton, 2007) imprevedibile e potentissimo, fondato sul rispetto dell’altro, delle famiglie in quanto persone, che teneva a responsabilizzare (“se voi volete tornare io sono disposto a ricevervi”, interrogato dalla famiglia alla fine di una seduta senza aver preso nessun appuntamento nuovo con loro, Andolfi, 2002). Le “ombre di contesto” di cui parla Whitaker (1995) devono esser portate alla luce come opportunità per il terapeuta e per la famiglia di scoprire nuove parti di sé insieme alla capacità di stare nella difficoltà, nel dolore, nell’impotenza relazionale, tutti ingredienti che fanno parte della vita. Un approccio che, come descrive Andolfi (2007) consentiva a ciascuno di entrare in contatto profondo con parti di sé perché lontano dalla rappresentazione del terapeuta come “colui che sa”: “niente che valga la pena di imparare può essere insegnato. Tutto deve essere scoperto da noi.” (Whitaker, 1990, p.69). La logica conseguenza di questo suo pensiero lo portava a dire: “sempre più la vita va vissuta!”, “dove c’è vita c’è follia!”, tutte frasi che mi risuonano quotidianamente nel mio essere terapeuta e nel mio essere persona.

Di Bowen i concetti esemplari dei suoi scritti che mi rimangono impressi sono quelli di differenziazione, intesa come processo di progressiva autonomia individuale, di Posizione Io, quella che consente a ciascuno di assumere la responsabilità della propria vita, di taglio emotivo, che si manifesta come la condizione di diniego dell’intensità dell’attaccamento emotivo non risolto ai propri genitori, con comportamenti più autonomi di quanto in effetti sia la persona e con un distanziamento spesso fisico più che emotivo. Il suo “viaggio di ritorno a casa”, non solo metaforico ma davvero programmato – come fece fare a molti dei suoi allievi e come usava fare con le famiglie – somiglia un po’ al quel processo di regressione biologica che fanno i cormorani prima di lasciare definitivamente il nido, sperimentando alcune ore fuori e poi tornando si fanno imbeccare e coccolare come fossero ancora pulcini (Canevaro, 2009). Un passo indietro per poterne fare due avanti, in particolare grazie all’effetto conciliatorio tra una generazione e  l’altra: importantissimo il trigenerazionale per quest’autore, che più di altri ha sostenuto l’uso del genogramma. L’unico aspetto che poco mi aveva conquistato era la sua proposta di una scala di differenziazione da 0 a 100: in verità ad un convegno di Firenze sulla terapia familiare (1978) lo stesso Bowen segnalò attenzione nell’usare questo strumento in modo flessibile, sostenendo che il mondo emotivo è vitale, pertanto non classificabile in categorie rigide e immutabili (Andolfi, 2002).

Il lavoro di Minuchin con i giovani devianti negli Slums mi colpì molto all’inizio del mio percorso, quando, lavorando nel contesto della psicologia giuridica, mi trovai a fare un tirocinio nell’Istituto Penale Minorile di Casal del Marmo. Ritrovai moltissimo le sue descrizioni delle famiglie disorganizzate, i loro sistemi e sottosistemi con ruoli confusi o poco definiti, l’assenza di confini interni ed esterni, il predominio degli agìti rispetto al linguaggio e al pensiero concreto. Oggi, del suo approccio mi rimane importante traccia – utile nella clinica, come dirò in seguito - nell’uso in seduta della struttura familiare come possibilità di agire metafore spaziali concrete (le sedie nello spazio, le domande del tipo: “fammi vedere chi è più alto tra te e papà”), nonché l’importanza data al bambino come porta d’ingresso della famiglia, con la possibilità di usarlo come co-terapeuta.

Della Selvini Palazzoli, al di là dei suoi scritti e del suo impegno per la ricerca, mi rimarrà sempre impresso il ritratto che ne fa il figlio Matteo nel numero 68 della rivista Terapia Familiare (2002). Un ritratto personale e familiare, che narra della sua storia attraverso le generazioni: una storia di resilienza, all’interno di una famiglia poco capace di occuparsi di lei. E il passaggio più delicato e allo stesso tempo più intenso è quello in cui Matteo descrive la Selvini vicina al letto di morte della madre che le chiede scusa per aver fatto poco per lei, una fondamentale riparazione che la madre ha potuto fare grazie anche alla capacità della figlia di restarle vicina, nonostante tutto, così come ha fatto con il padre violento.

Una testimonianza esemplare di come “requisito fondamentale per diventare pionieri  - ma anche allievi - della terapia familiare è essere nati in una famiglia” (Minuchin, 2002, corsivo mio).

1.2. Dalle tecniche alla relazione

Il tema delle tecniche spesso viene sviluppato a partire dall’idea della formulazione di una precisa diagnosi che possa fondare il successivo trattamento. Di cosa parliamo quando parliamo di diagnosi, tuttavia, (e di trattamento), ha a che fare con le premesse epistemologiche con cui ci si accosta alle persone, alla natura dei problemi che si pongono di fronte al terapeuta, sia per quanto concerne gli obiettivi dell’intervento che i modi di attuarlo, nonché al concetto di cambiamento in psicoterapia. Trovo questo un tema importante quando si parla di modelli teorici e metodologici, poiché cambiando tali premesse, cambia il modo di concepire la diagnosi, di fare la diagnosi e di attuare l’intervento. Leggendo un volume pubblicato nel 2009 dall’Ordine degli Psicologi del Lazio (La diagnosi in psicologia clinica), emerge – a mio parere - una certa fatica a tenere in considerazione questo aspetto, con la necessità di schierarsi pro o contro la diagnosi intesa in senso classico-psichiatrico, o di trasformarla, adattandola in modi che possano risultare più funzionali al trattamento psicologico-clinico. Sembrerebbe mancare una visione complessa che possa fare riferimento alla responsabilità del terapeuta e alla libertà di quest’ultimo chiamato a costruire, anzi, a co-costruire una narrazione, nuova e più complessa (e perché no, forse a volte anche più disordinata, destrutturata rispetto a prima!) con l’individuo/famiglia che chiede l’intervento, portando avanti una visione della psicologia che non debba necessariamente inseguire o porsi sullo stesso piano delle scienze naturali/mediche - che richiedono procedure standardizzate e verificabili, puntando a scoprire le regolarità di funzionamento, la replicabilità e generalizzabilità delle osservazioni e, quindi, un’esigenza di oggettività dei fenomeni umani (De Gregorio e Mosiello, 2004) - ma riconoscendo e valorizzando le sue proprie peculiarità che la caratterizzano, facendone una scienza della complessità o, come direbbe von Forster, del “divenire umano”. Ecco forse è proprio qui che risiede una delle differenze principali da tenere in considerazione: l’uomo concepito come “essere umano”, rispetto all’uomo concepito come “divenire umano”. Personalmente le mie convinzioni costruttiviste e costruzioniste m’impediscono di pensare ad una modalità giusta/sbagliata di fare diagnosi, ritenendo che ogni osservazione sia valida: se la mappa non è il territorio, ciascuno può usare la mappa che preferisce nell’esplorare un territorio, l’importante è che sappia maneggiarla e si assuma responsabilità di quella mappa, rimanendo coerente con le premesse che la fondano.

I modi principali di concepire la diagnosi in psicologia e psicoterapia attualmente sono tre:

1) la diagnosi che fa riferimento ai manuali di matrice psichiatrica, come il DSM-IV (V ormai) o l’ICD 10, che quindi fa riferimento ad una classificazione dei disturbi mentali attraverso la classificazione dei sintomi visibili o descritti dal paziente che consentono anche una diagnosi differenziale tra le varie forme di disturbi.

2) la psicodiagnosi, fondata sui principali test psicodiagnostici quali test proiettivi e test di personalità.

3) la diagnosi relazionale.

La diagnosi psichiatrica classica si presenta come una procedura oggettiva che presuppone un osservatore esterno, distaccato e neutrale che compie un’operazione di tipo descrittivo e classificatorio, cioè di assegnazione di un nome ad uno o più sintomi. Questa modalità, pur rappresentando un tentativo importante di trovare un linguaggio comune per definire i disturbi mentali, contiene in sé diversi limiti. Innanzitutto la patologia è nella persona e oggetto della diagnosi è il singolo individuo portatore della patologia. La psicopatologia è intesa come la deviazione da una normalità che si ipotizza condivisa e legittimata socialmente, che peraltro presuppone una relazione di “potere sociale” tra chi detiene tale normalità e gli strumenti per assegnare un individuo all’una o l’altra categoria normale/psicopatologica e chi, appunto, devia da questa presunta normalità. Il risultato è pertanto una sostanziale passivizzazione del paziente all’interno di un processo di classificazione di cui è oggetto più che soggetto e il rischio di una prognosi insita nello stesso processo diagnostico: classificata una sindrome, gli interventi e le aspettative della persona stessa e del contesto intorno a lei sono facilmente influenzabili da tale diagnosi, secondo il meccanismo della profezia che si autoavvera (Onnis, 2009). Alcuni più recenti tentativi di adattare la diagnosi psichiatrica classica alla psicologia clinica (Del Corno, 2009) sembrano rimanere ancorati ad un riduzionismo meccanicista che non consente di uscire dalla logica normalità/patologia fondante l’intervento medico: questi tentativi sostengono che diagnosi e indicazione al trattamento sono intimamente connessi, dal momento che non è possibile pianificare un trattamento psicoterapeutico senza prima aver compreso le caratteristiche del disturbo del paziente. Pertanto la diagnosi del funzionamento dovrebbe rispondere alla domanda (Western, 1998b, pp. 119-120): “in quali circostanze i pattern cognitivi, affettivi, motivazionali, comportamentali del paziente e le loro interazioni si attivano in modo tale da produrre stress per lui e per le persone che gli sono vicine?”, domanda che, pur prendendo in considerazione un ampio numero di fattori, sembra ancorarsi ad una logica di tipo causale lineare che ne riduce la complessità. Un esempio di questo tipo di diagnosi è la diagnosi strutturale di Kernberg il cui principale obiettivo è l’elaborazione di un profilo delle diverse organizzazioni di personalità che faciliti la diagnosi differenziale e permetta di elaborare indicazioni terapeutiche affidabili (Gazzillo, 2009), fondate sulle configurazioni dei processi che costituiscono la struttura o organizzazione di personalità. Si potrebbe obiettare che tale indicazione terapeutica “affidabile” – che implica infatti una buona conoscenza delle teorie e delle tecniche del trattamento (piuttosto che di sé e della propria capacità di incontrare sé e l’altro, direi!) contiene in sé il rischio che il terapeuta incontri un’”organizzazione nevrotica della personalità” o una “personalità psicotica” piuttosto che Mario, Giovanni, Francesca, ecc. Aggiungendo poi che lo stesso Kernberg (1981) evidenzia che per condurre un adeguato colloquio strutturale è auspicabile che il clinico non abbia altri pensieri e preoccupazioni particolari che gli impediscano di essere concentrato sul paziente, sul proprio controtransfert e al tempo stesso rimanere “sullo sfondo” del colloquio!

La diagnosi fondata su altri test psicodiagnostici (proiettivi o di personalità) contiene in sé gli stessi rischi potenziali, rimanendo comunque una conoscenza parziale perché mediata dagli strumenti testologici che possono individuare le caratteristiche di personalità del paziente e costruirne un profilo, ma sempre rimanendo ancorati ad una visione della patologia che sta dentro l’individuo – gli indicatori servono per evidenziare qualcosa che non funziona, secondo una visione che è già nella testa di chi opera la diagnosi -  e senza includere il terapeuta nella relazione con quel paziente.

Anche quando parliamo di diagnosi relazionale, bisogna intenderci di che parliamo. Si possono infatti usare delle premesse epistemologiche analoghe a quelle usate nella diagnosi psichiatrica classica, utilizzando la gnoseologia sistemica che fa riferimento a termini quali, sistemi, sottosistemi, famiglie invischiate, disimpegnate, ecc. che utilizzano ancora una volta una rigida distinzione tra normalità e patologia, declinate in questo caso in famiglie funzionali/disfunzionali. Ad esempio il modello strategico di Palo Alto proponeva - al pari del binomio normalità/patologia - una distinzione tra problema e soluzione, rispetto alla quale viene da pensare a Whitaker quando diceva che non c’è soluzione da trovare, semplicemente perché la vita non è un problema! Il gruppo di Milano, all’inizio del suo lavoro, attribuiva i sintomi a un “gioco familiare” di natura patologica, ponendo la lente sulla patogenesi, ossia da quali pattern relazionali specifici potessero emergere determinati sintomi. Si trattava di una visione coerente con il pensiero della prima cibernetica, secondo cui il terapeuta era un osservatore distinto da ciò che osservava e il suo compito era scoprire i giochi patologici alla base della disfunzione familiare. Haley (1980) descrive bene come il terapeuta familiare nella fase della prima cibernetica tendeva a tenersi fuori dalla diagnosi, osservando la famiglia come sistema indipendente da lui, diagnosticando, ad esempio, un “legame simbiotico tra la madre e la figlia”, avendo in testa come dovrebbe essere invece un legame funzionale tra madre e figlia. Secondo lo stesso Haley, un terapeuta esperto non permetterebbe mai che sia questo il problema. Se pensiamo la diagnosi relazionale tenendo in considerazione l’evoluzione epistemologica della seconda cibernetica che include l’osservatore nell’osservazione stessa, non è più necessario dire “depressione”, “attaccamento”, “sistema familiare schizofrenogeno”. Diventa infatti possibile vedere il sistema diagnostico e dell’intervento come processi d attribuzione linguistica o di costruzione linguistica della realtà. Certamente per poter dare un nome alle cose ciascuno di noi necessita di un insieme di categorie per poter distinguere una cosa da un’altra: impossibile pertanto non averne. Diverso è il modo di utilizzare queste categorie. Ogni clinico fa diagnosi se intendiamo per questo scegliere tra i dati di realtà e cercare alcuni parametri rispetto a cui costruire le proprie ipotesi (Telfner, 1998). Quando si attribuisce un nome alle cose, tuttavia, quelle cose non andrebbero chiamate “dati”, ma “presi”, dal momento che è l’osservatore che sceglie la sua personale mappa per definire quel territorio, costruendo una delle possibili punteggiature di quella realtà. Come sostengono Boscolo e Cecchin (1988) le diagnosi dicono più cose di chi le ha fatte che della persona stessa o come sostiene Telfner (1998, p. 23) “le descrizioni non sono proprietà del paziente ma qualcosa che è nato dall’interazione ed è riflessivamente collegato alle mappe del terapeuta”.

Prendere in considerazione la relazione, a questo punto significa intenderla quale premessa, oggetto e strumento della psicoterapia:

  • premessa fondante la relazione terapeutica, laddove il paziente/la famiglia formula una richiesta relativa alla relazione che ha con sé stesso, con la sua sofferenza e con i suoi sistemi.
  • in qualità di oggetto, è la relazione che diventa elemento primario del conoscere, considerando la “legge della psicoterapia” (Cotton, 2010): se il paziente fa questo con me, fa questo ovunque. La relazione terapeuta-paziente può essere utilizzata al fine di vedere ciò che accade al suo interno e può proporsi di guardare alla relazione stessa, con l’intento di utilizzarla quale ambito di promozione dello sviluppo: sviluppo del rapporto tra terapeuta e paziente e, di conseguenza, sviluppo della relazione tra la stessa persona e i suoi sistemi di vita (Carli, 1993). Whitaker (1989) ben evidenzia come il processo della terapia ruota attorno a persone e relazioni, non a interventi tecnici o astrazioni teoriche. La terapia è un incontro umano, pertanto il terapeuta dovrebbe poter mantenere la capacità di essere una persona.
  • in qualità di strumento, prenderei a prestito le parole di Cingolati (1991): valutare è intervenire. Laing nel 1971 (cit. in Onnis, 2009) così scriveva: “non appena interagiamo con una situazione, abbiamo già cominciato, volenti o nolenti, a intervenire. D’altra parte, il nostro intervento comincia già a modificare anche noi, non solo la situazione. Ha avuto inizio un rapporto reciproco”. Nella pratica clinica, l’intervento si dispiega e si modula nell’incontro e nella relazione “qui ed ora” con la famiglia o il paziente. È qui che la soggettività del terapeuta entra in gioco perché le ipotesi formulabili, le numerose possibilità d’azione, risponderanno alle risonanze con la sua personale esperienza (Elkaim, 1989) e allo stesso tempo è una costruzione congiunta.

Sostenere una pretesa oggettività e comunicabilità comprensibile del lavoro terapeutico – possibile attraverso un linguaggio condiviso come quello della diagnosi – fa pensare che adottando un approccio diverso, ad esempio di tipo costruzionista si debba pensare alla valutazione in termini differenti, ad esempio attraverso il consenso. Apel (1992) propone la sua “etica della comunicazione”: non esiste un comportamento “etico” in termini assoluti, ma ogni azione sociale (e quindi anche quella terapeutica) assume una valenza etica o meno nell’interazione comunicativa con altri. Soltanto attraverso il valore della comunicazione, è dunque possibile convivere nella pluralità delle visioni del mondo.

Il concetto di riflessività – utile anche nel campo della ricerca, dove viene utilizzato quale criterio di valutazione di quelle ricerche di tipo qualitativo che mettono in discussione i criteri propri della ricerca quantitativa di stampo positivista in psicologia e psicoterapia, nella ricerca così come nella pratica (De Gregorio e Mosiello, 2005) - sposta il focus sul processo terapeutico, sul come è stato condotto: laddove non è possibile parlare di conoscenze oggettive, la valutazione del processo terapeutico deve fondarsi sulle capacità del clinico di fornire alla comunità scientifica tutte le informazioni utili per valutare criticamente il processo attraverso i presupposti che l’hanno influenzato e i passaggi che l’hanno guidato. La riflessività si colloca nella fase di descrizione di quanto è avvenuto in terapia, in cui, in forma narrativa, il terapeuta ricostruisce il suo intervento in modo plausibile, fornisce una spiegazione delle scelte attuate, ricostruisce gli effetti di quelle scelte, assegnando loro un valore “situato” (Mantovani, 2003). È in questo modo che la valutazione diviene un problema dialogico, interattivo e di negoziazione sociale. Ancora una volta, di relazione.

Il training come processo

Camminante, non c’è cammino,

si fa il cammino, camminando

(Antonio Machado)

2.1 Il percorso alla Scuola Romana di Psicoterapia Familiare

Uno dei primi incontri di training, la dott.ssa La Mesa ci chiese di portare, quale presentazione di sé al gruppo, due libri che ci rappresentavano in quel momento, un testo narrativo ed uno di carattere scientifico. I due testi scelti da me furono “Jackroad”, romanzo d’esordio di un giovane scrittore che avevo da poco conosciuto durante un viaggio in treno – romanzo che parla, appunto, di un viaggio del protagonista “su quella strada che non arriva in nessun posto se non fino in fondo a noi stessi” (Pavan, 2005) – e un testo di Barbetta e Toffanetti sul pensiero di von Foerster, dal titolo “Divenire umano”. Oggi ripenso a questa scelta e, confrontandola con il percorso svolto, mi sento di affermare che le scelte non avvengono mai per caso e che i processi sono riconoscibili a partire dall’inizio del loro dispiegarsi, anche perché - a pensare circolare - l’inizio (e quindi la fine) qual è?

Il percorso formativo alla Scuola Romana è stato per me un “camminando”, un processo in divenire, ma talmente in divenire che ho trovato difficoltà – io, che provenivo da una cultura accademica dove il diktat era “pubblicare, pubblicare, pubblicare!”, ma soprattutto da un’esperienza di vita fondata sul controllo e sulla certezza – a fare un “fermo immagine” e afferrare dei contenuti per produrre elaborati (di pensiero e scritti) su quello che per me stava avvenendo. E così è stato difficile in questi anni poter produrre le tesine richieste dalla scuola, sistematizzare quanto stava avvenendo per me nella costruzione di quello che Cotton (2007) definisce “il senso del terapeuta”, dove “il sapere è dimentico di sé stesso, versato nell’ascolto, nell’incontro, dove, al dire di Kleist, avviene la relazione” (Cotton, 2007, p. 1).

Il verso della poesia di Machado che ho inserito come epigrafe così prosegue: “all’andare si fa il cammino e al girare lo sguardo dietro si vede il sentiero che mai si deve tornare a calpestare”. Un po’ come diceva qualche secolo prima Eraclito, “non ci si può bagnare due volte nell’acqua dello stesso fiume”, tuttavia – come affermava anche Russel (1948) sostenendo che non solo l’acqua del fiume ma anche chi si bagna con il passare del tempo non sarà più lo stesso - quell’acqua la possiamo sentire col piede nell’istante del suo passaggio e quel sentire lascia una traccia: l’esperienza. Parlo di esperienza nel senso definito da Bion (1996) quale sensazione percepita consapevolmente (i dati sensoriali convertiti in elementi alfa, destinati ad essere immagazzinati e messi a disposizione del processo di astrazione), che include un apparato psichico che la pensa e che ci rende presenti a quella sensazione. Come dice Bucci (2009): “l’esperienza è una cosa che si fa e poi se ne fa un’altra. Una cosa che si ripete non è esperienza, è abitudine, che impedisce di riconoscere i cambiamenti”. Oggi, nello scrivere, è il tempo per me di riconoscere i cambiamenti, di girare lo sguardo e vedere quel sentiero di cui parlava Machado nella sua poesia, che non si può più calpestare ma che mi posso consentire di utilizzare perché introiettato nel percorrerlo, il tempo della riflessività, di ciò che mi consente di accompagnare riflessivamente ciò che ho vissuto e di cui ho potuto fare esperienza, il mio “senso” dell’esperienza.

La distinzione che i pensatori greci facevano del tempo (Boscolo e Bertrando, 2008) mi torna utile: per i greci l’Aion è il sempre, l’eterno, la durata senza limiti, priva di passato e di futuro, Chronos è il tempo inteso come grandezza numerabile, il divenire misurabile, il Kairos è il tempo vissuto, il tempo dell’esperienza interiore, il tempo del qui ed ora, unico e irriducibile.

Solo oggi mi accorgo che sto cercando (perché ne sento nuovamente l’esigenza) dove ho riposto i miei orologi da polso che proprio quattro anni fa ho smesso di usare perché mi davano fastidio, in quel fluire di tempo del training – il Kairos, ma forse anche un illusorio Aion - in cui ho preferito fare esperienza senza rendere prevedibile, oggettivabile, quanto vivevo; ma è anche vero che l’esperienza necessita di pensiero su: “una successione di eventi è un nulla che fugge e si disperde come le onde del mare. Convertendola in una catena verbale, la fissiamo e le diamo una realtà: una realtà per noi” (Toraldo di Francia, 1990, p.32, corsivo mio). Oggi sento nuovamente l’esigenza di dare un ordine al tempo attraverso una narrazione, quindi posso definire e descrivere l’intero percorso di training da me vissuto come un “evento narrativo” (Kaneklin e Scaratti, 1998) per rendere esplicita e comunicabile – e pertanto anche sottoponibile a critica – l’integrazione tra le “teorie in uso” e la “conoscenza in azione” (Schön, 1993), vale a dire tra i modelli teorici di riferimento e i nuovi modelli di conoscenza e di azione derivati dall’esperienza di formazione di questi anni.

2.1.1 Giano Bifronte…di fronte!

Se il corso di specializzazione è stato per me un “camminando”, un viaggio in divenire, non potevo che fare parte di un gruppo con un nome degno di rappresentarci in questa caratteristica. La scelta è infatti nata a partire dal gruppo virtuale che avevamo creato sul server yahoo per scambiarci le comunicazioni: Iannosrpf (primo anno scuola romana psicoterapia familiare). La prima parte del nome (Iannos) ci ha fatto pensare al latino Ianus, la divinità della religione romana, latina e italica che porta il nome di Giano bifronte. Già gli antichi mettevano il nome del dio in relazione al movimento (da Wikipedia): Macrobio e Cicerone lo facevano derivare dal verbo ire "andare", perché secondo Macrobio il mondo va sempre, muovendosi in cerchio e partendo da sé stesso a sé stesso ritorna. Gli studiosi moderni hanno confermato questa relazione stabilendo una derivazione dal termine ianua "porta" (che, guarda caso, anche in dialetto sardo si dice Ianna=porta), ma è con Dumézil che il senso si precisa: il nome Ianus deriverebbe infatti dalla radice indoeuropea ei-, ampliata in y-aa- con il significato di "passaggio”. Giano, custode dei passaggi e delle porte, attraverso le due facce che lo caratterizzano può guardare i movimenti ma, fissato nello stesso destino delle porte, non può mai vedere la fine del movimento, solo il transito, il passaggio, appunto. In questo Giano bifronte è stato lo specchio del gruppo che non avrebbe potuto chiamarsi che così. Un gruppo fondato sul controllo, sull’Aion greco, quel tempo eterno in cui non è possibile definire una fine, un risultato (un gruppo che non è mai riuscito ad organizzare una cena, pur tentando di organizzarla spesso, un gruppo che non ha mai consegnato per tempo i lavori o le tesine richieste dalla scuola) e, quindi, una distinzione o, per dirla con un linguaggio sistemico, una differenziazione. Ianus in questo è stato un sistema assolutamente isomorfo alla famiglia, la nostra, interna e reale e le famiglie che incontriamo e incontreremo in terapia, poiché è nel gruppo che abbiamo potuto sperimentare tutti quei processi che in una terapia familiare dalla fusione portano all’individuazione di sé e alla differenziazione di ciascuno nel proprio gruppo/famiglia.

L’avventura è cominciata proprio così, la prima lezione di training della Cotton in cui il gruppo ha mostrato le sue caratteristiche del momento iniziale: fusionalità, protettività, controllo. Oggi, dopo essere passati attraverso l’esperienza gruppale, possiamo dire che Ianus ha rappresentato per ciascuno di noi un contenitore emotivo rassicurante a partire dalla sua configurazione iniziale di magma indifferenziato o, utilizzando il piatto da me cucinato in occasione del genogramma delle radici[1], di brodo primordiale dove è stato possibile rintracciare gli elementi primari che vi sguazzavano dentro: la rigidità dei ruoli (e dei posti a sedere) anche per chi riteneva di ricoprire ruoli mobili; tale fissità di alcuni ha consentito agli altri di avere come ruolo fisso quello di essere mobili, secondo una prevedibilità molto rassicurante nella sua familiarità, ma anche nella protezione dall’esporsi di ciascuno per modificare, ad esempio, il posto fisso su una stessa sedia ed evitare così il dispiegarsi di possibili conflitti nel gruppo, per rimanere tutti a sguazzare in quel caldo brodo rassicurante. L’idealizzazione è un altro meccanismo che ha caratterizzato il gruppo Ianus in questi anni. Idealizzazione riscontrabile nella difficoltà a mostrarsi e a chiedere, come se il terapeuta debba essere colui che sa, che deve sapere e che chiedendo rischia di rendere visibile ciò che non sa, sentendosi inadeguato: un’idealizzazione fondata sull’aspettativa di dover sapere tutto, che impedisce l’apprendimento e l’evoluzione, rendendo impossibile la curiosità ma anche l’accesso ad un lavoro su di sé e sulle proprie parti in ombra se non ci si dà la possibilità di esporle. Ancora ricordo come fosse ieri (era in realtà quattro anni fa) il rimando della dott.ssa Cotton (2008): “il miglior terapeuta è proprio quello pieno di difetti!” La metafora fu quella del loto che nasce dal fango: solo lavorando sul e nel nostro fango e prendendo consapevolezza che quel fango esiste, possiamo assistere alla nascita del loto. Fango e loto sono inscindibili e il nostro percorso formativo è dovuto passare per l’integrazione (o per l’inizio di una possibile integrazione) dei nostri aspetti negativi con quelli positivi. Come mi è capitato di dire l’ultimo giorno di training, il gruppo per me “se fosse stato un viaggio” sarebbe stato un viaggio in Amazzonia: un luogo impervio e pericoloso, primitivo, libero da tutte le sovrastrutture e le sicurezze della vita cittadina, tuttavia affascinante e bellissimo; un viaggio attraverso le proprie ombre, pericoloso, doloroso, eppure meraviglioso.

Tanti ancora sono gli elementi primitivi riscontrati nell’esperienza gruppale: il bisogno di appartenenza e l’illusione di unicità, il controllo, la ribellione. Un gruppo che non chiede, lascia che sia il didatta a chiedere al posto di ciascuno (lascio a te di fare ciò che non riesco a fare) in modo da sentirsi in balìa di qualcun altro (è il didatta che sa e che può decidere per me, io non ci riesco). Così come la ribellione, la polemica con i didatti, parlano di una reattività che ha a che fare col dipendere, parla di un bisogno e del chiedere all’altro di farsene carico. Tutti questi aspetti sono stati per noi occasioni di riflessione e nutrimento che ci hanno consentito di sperimentare sulla nostra pelle un passaggio da una posizione di “vaso” (Cotton, 2011) che sta dove l’altro lo colloca, ad una posizione di affettività autonoma, passando per la dipendenza, assumendo la posizione di allievi e affidandoci alle capacità dei nostri didatti di accompagnarci nel vederci e nell’assunzione delle nostre responsabilità. Probabilmente l’esperienza che abbiamo incarnato del limite di Ianus, la staticità di chi custodisce le porte, il suo essere fissato al transito e dunque impossibilitato ad andare fino in fondo, potrà rappresentare un’opportunità per noi in quanto terapeuti nel trasformare tale limite in risorsa utilizzabile: chissà se la doppia faccia di Giano bifronte non possa essere oggi per noi la possibilità di quella visione binoculare di cui parlava Bateson (1977) a partire proprio dalla distanza che abbiamo raggiunto, tale da poter osservare l’esperienza! Passare attraverso gli stati emozionali del gruppo ci ha consentito di differenziarci (di iniziare quantomeno un processo di differenziazione) e di accedere ai nostri contenuti emotivi.

2.1.2 Questa sono io!

“Questa sono io”, la frase di un film, “Rose White” (1992), visto nel corso delle lezioni teoriche a scuola, che ha suscitato in me una forte risonanza per la sorpresa di vedersi, forse per la prima volta, della protagonista, per quello che era e non per l’immagine di sé che aveva tentato di costruirsi fino a quel momento.

Come avviene in terapia familiare, la differenziazione è avvenuta dentro un movimento del gruppo ma il gruppo è costituito da individui e la distinzione, l’individuazione, parlano della relazione di ciascuno con sé attraverso cui arrivare a poter dire: “questa/o sono io!”. Ricollegandomi alla scelta del libro all’inizio del training, nel testo sul pensiero di von Foerster mi piacque un brano in particolare: “(von Foerster) credeva che la libertà non fosse una conquista definitiva, che non fosse un essere, ma un divenire. Che l’essere umano fosse un becoming e non un being” (Barbetta e Toffanetti, 2006, p.20). L’esperienza di me in questi quattro anni di training mi ha consentito di “andare verso un mio proprio luogo e di sapervi soggiornare” (Cotton, 2007), passando attraverso importanti incontri: l’incontro con i didatti, con i compagni di corso, con le teorie e i modelli di riferimento, con l’esperienza clinica, con i pazienti, con la mia storia familiare e con la mia famiglia, ma soprattutto – e inestricabilmente connesso a tutti i precedenti - l’incontro con me stessa e la possibilità di utilizzare in modo funzionale in terapia questo incontro, nella convinzione costruttivista che lo strumento principe del nostro lavoro siamo noi stessi e prima di entrare in relazione con l’altro ciascuno è in relazione con sé.

Il testo di E.A. Abbot del 1882, “Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni”, racconta la vita di un abitante (un quadrato) di un ipotetico universo bidimensionale che entra in contatto con l'abitante (una sfera) di un universo tridimensionale, Spacelandia. Un incontro che consente al quadrato di presentare un’analisi accurata del proprio mondo piatto, distinto per classi sulla base del numero di lati che formano le figure, quindi sull’aspetto esteriore. Trattandosi di linee rette, in Flatlandia non esiste il gioco tra luce ed ombra e neanche il colore, vietato per legge: come afferma il quadrato, la vita laggiù è abbastanza monotona. L’incontro tra il quadrato e la sfera è la scoperta del mondo tridimensionale che apre nuove possibilità: e il quadrato arriva a sognare un mondo a quattro dimensioni.

Un po’ questo utilizzerei per descrivere il percorso attraverso cui ho fatto la mia esperienza personale, formativa, clinica in questi quattro anni. Quando nel corso del training di primo anno la dott.ssa Cotton ci chiese cosa significava per noi esser terapeuti, la mia risposta fu che per me essere terapeuta era “dare senso”, “capire”, che a vederlo con lo sguardo di adesso mi fa pensare alla necessità di spiegare la realtà, come se ci fosse una Verità utilizzabile come modello teorico di spiegazione, la ricerca di una causa che ha prodotto un effetto: un modello “flat”, piatto, lineare, privo di possibilità. Un modello attento ai contenuti, che in terapia rende impossibile un reale incontro con la famiglia: il contenuto richiama un’idea giudicante di giusto/sbagliato, buono/cattivo e soffermarsi su questo significa possedere già una presunta aspettativa di come dovrebbe essere la famiglia/il paziente. Questo tuttavia rischia di non essere un lavoro con la famiglia ma sulla famiglia, probabilmente rassicurante per il bisogno di controllo del terapeuta, che lavora con le sue proiezioni e attribuzioni. Oggi sento che il mio sguardo di persona e anche di terapeuta (non a caso ricordo le parole di Bowen secondo cui possiamo aiutare gli altri a differenziarci solo fino a dove siamo noi differenziati) assume quelle caratteristiche di “imbuto rovesciato” di cui parla spesso Saccu come immagine del modello sistemico: uno sguardo orientato al vivere, o meglio, al vivendo, al camminando, al facendo, nella consapevolezza che le cose possono essere “a più dimensioni”, in un modo e in un altro e questo introduce la creatività, la profondità, il colore, la libertà di andare dove si vuole, tutte cose impensabili in Flatlandia.

Nel periodo “flat”, apparivo proprio come una brava allieva: facevo domande, partecipavo, apparivo come una persona che iper-ragiona (Cotton, 2009d) portando contributi teorici, sorvolando tuttavia tutto ciò che mi riguardava più nel profondo, evitando di espormi fino in fondo, evitando interventi troppo eclatanti. Nel corso del genogramma ho potuto accostarmi a questo e osservare – e sentire – come il mio non permettermi di espormi era legato alla paura che gli altri potessero vedermi in una veste da “piccola”, da “allieva”, come una che non sa, costretta tuttavia a rimanere in una forma piatta, appunto, che aveva a che fare con la forma esteriore ma non con la profondità, impossibilitata a poter attingere alla mia parte bambina, che non sa e che proprio nel suo non sapere possiede una risorsa perché può imparare chiedendo, esponendosi all’esperienza.

Tutto questo ho potuto riscontrarlo – come racconterò nella seconda parte della tesi - anche nel caso clinico, nella famiglia da me seguita a scuola con la supervisione della dott.ssa Cotton. Una famiglia portata alla scuola romana dalla figlia di otto anni che esibiva comportamenti regressivi, tali da renderla pari al fratellino di cinque anni. Nel rivedere le sedute ho potuto constatare con quale veemenza i miei tentativi di essere goffamente provocatoria con lei, in realtà parlavano di tutte le mie proiezioni su quella bambina che si mostrava piccola, addirittura più piccola della sua età, io, che sin da bambina avevo assunto su di me il ruolo della “grande”, di quella che “si è cresciuta da sola” e che tutto sa – ma al tempo stesso quanti aspetti identificatori con quella stessa bambina che a modo suo si stava caricando su di sé responsabilità ben più grandi di quanto le spettassero!

L’individuazione: “per potersi separare bisogna prima potersi unire” (un mantra che tutti i didatti ci hanno ripetuto per tutto il corso del training). Aggiungerei: accogliendo l’esperienza del dipendere. Si dipende dagli altri, è nell’incontro con gli altri – e quindi nelle relazioni – che è possibile fare esperienza di sé. È nell’assumere la posizione di chi “sa di non sapere” che è possibile realmente conoscere, anche affidandosi a chi può accompagnare essendo già stato accompagnato.

2.1.3 I didatti

I “Virgilio” di questi anni, i didatti della Scuola Romana, hanno incarnato l’idealizzazione prima, quella che ciascun bambino ha verso i suoi propri genitori, percepiti come bravissimi, irraggiungibili, custodi di qualche dote nascosta legata anche alla nostra pretesa di allievi che i didatti fossero così come ce li aspettavamo. La caduta dell’idealizzazione nel confronto tra tale pretesa e la realtà ha fatto si che ciascuno potesse finalmente essere sé, custode del proprio “senso”, abitante del proprio “luogo” (Cotton, 2007), recuperando tutti quella “umanità” che ci rende simili nelle nostre differenze. È ciò che rende possibile una relazione tra individui e ciò che consente a noi allievi di non immaginare più, oggi, con lo sguardo attuale, di dover riproporre in terapia lo stesso stile o gli stessi comportamenti, metafore, immagini dei didatti – in analogia con le famiglie che si trasmettono invariabilmente modelli e miti attraverso le generazioni pur di garantirsi la sicurezza – ma trovando stili personali, modalità proprie, sperimentandoci ed esercitandoci giorno dopo giorno nella consapevolezza che, seppur trovando un proprio luogo, nessun luogo sarà mai fisso poiché la relazione si fa facendosi, nell’incontro tra terapeuta e paziente, tra terapeuta e famiglia, tra sé con sé.

Le guide che in questi anni mi hanno accompagnata hanno lasciato in me tracce importanti nel mio incontro con loro: Bucci, con la sua capacità di essere un “perturbatore”, abilissimo nello smontare ogni teoria precostituita dell’altro (la differenza di potenziale è ciò che genera energia, il suo motto) consentendogli di aprirsi nuove strade e, quindi, di fare esperienza di sé; a lui riconosco il merito aggiunto di avermi introdotta al pensiero di Armando Ferrari, con il quale sento di poter contaminare la mia formazione sistemica con un approccio psicoanalitico complesso (che sempre di relazioni tratta), che va ad arricchire la dimensione orizzontale del rapporto con il mondo esterno con quella verticale del rapporto tra corporeità e pensiero, relativamente a come ciascuno si dispone in relazione a sé e ai nuclei tematici della vita. La Mesa con il suo stile terapeutico che potrebbe riassumersi nel motto del noto architetto minimalista Mies van Der Rohe: il meno è il più, la rigogliosità della semplicità nell’incontro con le famiglie, nonché il suo impegno teorico e scientifico nel mantenere la terapia familiare in dialogo con la ricerca, la letteratura, le pubblicazioni, conferendole quindi uno status di riconoscibilità scientifica. Saccu, che in un diario di bordo ho definito come “il soma che irrompe sulla scena”, con la sua pancia colma di esperienza dell’emisfero destro, il vero terapeuta simbolico-esperienziale che pensa per immagini rese sotto forma di narrazioni metaforiche. Cotton e il suo senso, la sua soggettività capace di far stare l’altro nella propria, sento che mi ha permesso di guardare nei miei meccanismi di funzionamento perché c’era lei in quanto didatta a garantire che la mia logica potesse essere portata fino in fondo, non aggiungendo informazioni ma, anzi, togliendone, in modo da poter entrare in un contatto davvero autentico e libero da sovrastrutture ciascuno con il proprio senso; quel senso che la Cotton (2007) esprime con un’immagine generativa, la relazione che la pianta ha con la propria terra in quanto processo in divenire che consentirà la crescita di quella pianta alimentata da quella terra. Il tema che ancora una volta ritorna è quello della stasi versus il movimento: se tutto è in luce, come la pianta che è la parte visibile, se non ci sono ombre, terra, rimane tutto fermo: è solo dalla relazione tra luce ed ombra che si crea movimento, processo.

Un testo di Canevaro (2009) s’intitola “Quando volano i cormorani” e parla di come questi uccelli prima di uscire definitivamente dal nido fanno piccole prove di poche ore fuori e poi tornano nel nido dove avviene una sorta di “regressione” biologica: dondolano, pigolano e vengono imbeccati e nutriti dalla mamma come fossero ancora pulcini. Solo dopo questo rituale i cormorani saranno finalmente pronti a spiccare il volo e lasciare definitivamente il nido d’origine.

Le relazioni non finiscono ma si trasformano e io so che utilizzerò ancora i miei maestri, tornando al nido di via Reno, per continuare a nutrirmi anche attraverso nuove forme, come uno scambio di supervisione o in un semplice (e complesso) confronto tra professionisti. Delle relazioni.

 

[1] Il genogramma delle radici è stata un’esperienza che abbiamo vissuto nel corso del training con la dott.ssa Cotton (2010) in cui ciascuno di noi ha portato a scuola un piatto appartenente alla tradizione culinaria di casa, quindi, un piatto rappresentativo della propria storia personale e familiare.

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