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IL DIDATTA ONTICO

3Era il 13 gennaio 1995, il primo giorno di training. Quella mattina ci attendeva sulla porta Gianni Fioravanti avvolto nel fumo di una sigaretta che quasi cancellava i tratti di un viso pronto a riemergere con le sembianze di imponenti sopracciglia. 
Ho pensato a Lucky Luke, il cowboy dei fumetti capace di sparare più veloce della propria ombra, al suo folto ciuffo, alla sua sigaretta sempre tra le labbra, al suo grande cappello. 
La tenuta da cowboy era qui sostituita dalla sua divisa ufficiale: pantalone, camicia, in estate polo, e giacchetta, affidati a colori e a toni rigorosamente asciutti e austeri, come il blu, il verde, il beige, il bianco.

 

La sua sigaretta era sempre accesa, consumata in un rito discreto, alla finestra o alla porta, sostenuta dal pollice alla base e in alto dalle quattro dita restanti.

Il ciuffo non c’era, ma c’erano le due folte sopracciglia. Il cappello e la pistola, in quel momento, non capivo dove fossero.

Avvolto rigorosamente nel suo personaggio asimmetrico, Gianni si presentò al gruppo dando poco spazio a sé, concedendo quasi nulla della sua biografia e procedendo a testa bassa: in quel modo preannunciava uno stile che negli anni, al di là di qualche minima e timidissima deroga, sarebbe rimasto fedele a se stesso, centrato sul lavoro teorico ed esperienziale del training.

Quel giorno ci parlò di un concetto, tanto basilare quanto sconosciuto a noi, quello della dimensione relazionale della mente. Sin da quel giorno, si raccomandò di non banalizzare il corpus freudiano e la sua importanza per tutto il campo psicoterapeutico, non rinunciando a considerare gli sviluppi, allora relativamente recenti, della psicodinamica relazionale. Ci lasciò tramortiti dopo otto ore, raccomandandoci di considerare la differenza tra legami funzionali, strumentalmente dettati dalle convenienze, e legami ontici, strutturalmente radicati al punto di definire una controparte essenziale del Sé dell’individuo.

Da quel giorno per noi, il Gruppo degli “Spaghetti alla Norma”, Gianni diventò il didatta austero, finanche severo, pieno, asciutto, a tratti scontroso, del quale si aveva timore.

L’austerità, evidenziata, su tutte, dall’inflessibilità e dall’intransigenza, lo portava, in alcuni passaggi, ad essere rigido, anche scontroso. Lo fu con me in una circostanza, in cui una mia aggiunta critica a un concetto da lui espresso (qui una mia censura autoassolutoria non mi permette oggi di rintracciarlo) gli fece avere una reazione dura, con la quale respinse l’osservazione, apostrofandomi con un diretto “professore”: molti, io per primo, fummo sorpresi dalla reazione e dalla sua “violenza”. Pochi, io sicuramente, successivamente abbiamo compreso cosa contenesse tale simmetricità: l’invito ad essere essenziale, a non perdermi in inutili, forse narcisistiche, puntualizzazioni.

Era una delle pallottole che avrebbe tirato per il Gruppo dalla sua pistola, quella con la quale esercitava la sua funzione di traghettatore alla professione.

Gianni era severo: il rigore e la coerenza trasparivano da ogni sua parola, da ogni suo gesto, incutendo anche timore. Il timore di specchiarci, attraverso lui, nella nostra ignoranza.

Quel timore, inizialmente paralizzante, con il passare del tempo si trasformò nell’apprezzamento di una irrinunciabile dote didattica: l’invito agli approfondimenti teorici, alla sostanza.

Imparammo a capire, nel tempo ma sempre da soli senza che lui uscisse da sotto al cappello del suo personaggio, che dietro quella nuvola di fumo, quel didatta, c’era altro.

C’era l’invito ad andare anche oltre il recinto della sistemica, a essere rigorosi lì dove un superficiale fraintendimento della complessità poteva fare coincidere questa con la superficialità, un malinteso senso del relativismo poteva farci approdare a un caricaturale nichilismo.

Era asciutto, a volte anche brusco. Non si perdeva in complimenti: oltre l’ossequio a una funzione che tendeva a considerare “stabile nel tempo”, come avrebbe poi scritto in un bell’articolo scritto a quattro mani con l’altra nostra didatta, Anna La Mesa, usava questo aspetto per schermare un’altra sua caratteristica, la timidezza.

Uno dei modi che gli riusciva meglio per nasconderla era il cappello del non verbale.

Prima di emettere suoni, come in un collegamento di quelle dirette televisive satellitari di un tempo in cui a volte i movimenti delle persone precedevano la loro voce, quando doveva arrabbiarsi o comunque dire la sua con decisione, Gianni anticipava i suoni con eloquenti non verbali, affidati a espressioni del volto o, a volte, a gesti anche ampi.

Nel tempo imparammo a capire che sotto il cappello, dietro quel timido austero, asciutto, brontolone, severo, intimorente didatta, c’era un’anima, quella che lui e Anna avrebbero chiamato la “trama emotiva”.

Al primo anno portai, nelle sue giornate nel Gruppo, un caso in supervisione indiretta.

In quella storia c’erano una coppia e un apprendista terapeuta che ne combinava di tutti i colori, con non pochi strafalcioni sistemici, come l’uso della scrivania. Fu un passaggio delicato, difficile, in cui la mia inadeguatezza era palese. Gianni supervisionava con il suo stile, duro, sarcastico, sempre puntuale. Un giorno, percependo una mia difficoltà, nell’intervallo, portandomi a prendere un caffè, mi chiese se non mi sentissi troppo “attaccato”.

Fu quel giorno che lo vidi senza cappello.

Fu quel giorno che cominciai a entrare oltre quel ruolo e quella funzione, che cominciai a vedere l’uomo, la sua timida dolcezza.

Fu quel giorno che ebbi conferma di come Gianni, oltre la potente e invidiabile risorsa emisferica sinistra, custodiva una buona capacità di destra, emisferica non politica: il fraintendimento lo farebbe sobbalzare dalla tomba assieme al suo mai domo, sempre coerente, rigoroso e un pò utopistico animo sessantottino.

Dopo qualche anno di distanza da questo mondo, rientrandoci su invito di Carmine dalla parte della didattica, ho ritrovato Gianni.

Dapprima in alcune lezioni teoriche: era sempre lui, capace di muoversi in quel circolo che andava dal rigorismo più estremo alla flessibilità più dolce.

Dopo i tre anni di formazione, ecco il battesimo vero e proprio della colleganza. Una colleganza di facciata: mi sono sempre considerato, mi considero e mi considererò sempre, prima un allievo di Carmine, come di Anna, come di lui. Una colleganza, quindi, che manteneva aspetti di timorosità, di distanza.

Una sera, in una di quelle cene un pò formali nelle quali ti ritrovi ospite di tavolate improbabili e improponibili, dove il legame sta nell’appartenenza che è fuori di te più che in motivi che sono dentro di te, mi ritrovai al fianco di Gianni.

Era una cena. Era un mio commensale, ma non potevo non pensare al ciuffo, soprattutto alla pistola, al cappello. Usai un’arma opposta alla sua gentile timidezza: gigioneggiai tra i commensali per riempire i vuoti della casualità: si avviò un movimento circolare e il nostro, uno dei quattro tavoli, divenne, credo anche nello stupore di molti, uno dei più rumorosi.

Il senso che l’operazione riusciva me lo diede il sorriso di Gianni.

Quella sera, tra noi due, trovarono conferma affinità, su tutte politiche, coperte ma, probabilmente, sempre intuite. Ci divertimmo molto.

Il ciuffo-sopracciglia e la sigaretta erano sempre al loro posto.

La pistola d’ordinanza era lì, ma posata sul tavolo.

D’un tratto mi fu chiaro, soprattutto, che Gianni non aveva più il cappello.

A fine serata mi mise una mano sulla spalla, mi baciò e, sorridendo, mi disse che era contento di avere scoperto altri lati di me, ora che mi vedeva non più come allievo.

Anch’io quella sera, e glielo dissi, scoprii che il mio didatta, il mio Lucky Luke, sotto il cappello aveva molto di quello che avevo sospettato avesse: ebbi la conferma, soprattutto, che, forte della sua integrità morale, con la sua pistola cercava di non uccidere mai nessuno.

Da quella sera ho capito ancor di più perchè in seduta, ancora oggi quando faccio uso di alcune parti del mio Sé, sono avvolto in controluce dal ricordo e dal sostegno di un didatta ontico.

Di un uomo che mi mancherà molto.

Di un uomo al quale abbiamo brindato con allegra tristezza con Nicola, Maria Teresa e Alessandra sulle rive dello Jonio a Cutro sotto lo sguardo di una sorpresa Flavia, che non può ancora comprender come si possano coniugare un brindisi affettivo con una morte.

Di un uomo che, io come tanti altri formati in via Reno, cercheremo di onorare tenendo fede al senso etico che ci ha insegnato.

Terracina, 27 giugno 2016 Luca Vallario

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